Era il 19 maggio 1985, Amelia era incinta ormai da quella che sembrava essere un’eternità.
Questo figlio stava marciando male: il termine della gravidanza era finito ormai da un bel po’, le nausee erano state prepotenti per tutto i mesi e nessuno era mai riuscito a capire se si trattasse di un maschio o di una femmina.
Mentre decine di pigiamini gialli e verdi (gender free) riposavano dentro la borsa per l’ospedale, la diciannovenne si godeva un’altra normalissima giornata con il pancione. All’improvviso qualcosa cambiò, Amelia corse in ospedale accompagnata dal marito e raggiunta velocemente dal padre e dai suoceri. Quella sera, dopo qualche ora, venne al mondo una bambina lunga e sottile, dalla pelle talmente chiara da sembrare trasparente ma macchiata su una gamba da quella che volgarmente tutti chiamano “voglia di caffè ” ovvero una chiazza marrone dalla forma tondeggiante.
La neo-mamma distrutta dall’anestesia e dalla stanchezza crollò per qualche ora, non prima però di aver sorriso alla sua bambina.
Al suo risveglio le consegnarono un fagottino d’amore profumato e ben avvolto in una copertina: aveva capelli folti e scuri, era ben piazzato e soprattutto ERA MASCHIO.
La madre iniziò a dire che quello non era suo figlio e che lei aveva partorito una bambina, ma medici e infermiere non diedero peso a quelle parole anzi le sminuirono puntando sull’effetto stordimento dovuto ai medicinali.
Poi, come accade nei fumetti, si accese un’idea a forma di lampadina:
“Controllate il ginocchio! Mia figlia ha una grossa macchia marrone.”
Quella “voglia di caffè” orribile che ancora oggi mi infastidisce, riuscì a evitare una serie di sfortunati eventi in stile commedia di Ficarra e Picone.
Qualche anno fa ho conosciuto Alessandro, mi pare che si chiami così. Io contrariamente a quanto si possa pensare non sono mai riuscita a mettermi nei suoi panni e immaginare uno sliding doors.
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